In caso di utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato da parte della pubblica amministrazione, il lavoratore ha sempre diritto al risarcimento del danno, senza la necessità di dover fornire una prova rigorosa del pregiudizio subito.
La pronuncia della Cassazione Questo il principio sancito dalla
Sezione lavoro della Corte di cassazione con la sentenza n. 1260 depositata il 23 gennaio 2015. I Giudici di legittimità hanno rivisto il precedente orientamento giurisprudenziale, secondo il quale era il dipendente a dover fornire la prova puntuale dei danni subiti, anche a fronte della violazione delle norme che limitano il ricorso al lavoro flessibile. Secondo la sentenza in commento, invece, al lavoratore spetta solo la prova (anche per presunzioni) dell’abuso, mentre il danno è
in re ipsa.
Il caso
La vicenda al vaglio della suprema Corte riguardava una lavoratrice assunta presso un Ente locale con contratto a tempo determinato. Al termine del rapporto di lavoro, la dipendente impugnava il contratto ottenendo l’accertamento del carattere abusivo dello stesso, ma non anche il diritto al risarcimento, non avendo fornito la prova dei danni lamentati. La Cassazione ha ribaltato la decisione di merito applicando i principi stabiliti dalla Corte di Giustizia europea nell’ordinanza “Papalia” del 12 dicembre 2013, in cui si afferma che gli Stati membri (nel caso specifico, l’Italia) non possono subordinare il risarcimento a favore del lavoratore a termine nel settore pubblico all’obbligo di fornire la prova del danno subito, “se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione”. Alla luce di tale principio, la Cassazione ritiene che l’articolo 36, comma 5, del Dlgs n. 165 del 2001, nella parte in cui prevede il diritto al risarcimento del danno per il lavoratore illegittimamente assunto, deve essere interpretato – con riferimento a fattispecie diverse da quelle del precariato scolastico – nel senso di “danno comunitario”, da considerarsi quale “sanzione posta ex lege a carico del datore di lavoro pubblico ”. Deve inoltre trattarsi di un risarcimento“conforme ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della PA di contratti a termine (…) mentre l’interessato deve limitarsi a provare l’illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze “falsamente indicate come straordinarie e temporanee”. Pertanto, conclude la Corte, “salva restando la possibilità per il lavoratore di fare ampio uso della prova presuntiva, è sufficiente che il ricorrente fornisca elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di una situazione di abusivo ricorso ai contratti a termine in suo danno, spettando alla amministrazione convenuta l’onere di provare l’insussistenza dell’abuso”.
Conclusioni
La sentenza in esame rappresenta certamente un importante passo in avanti verso il percorso di maggiore tutela del precariato pubblico avviato dalla giurisprudenza secondo le coordinate tracciate dalla Corte di Giustizia Europea (da ultimo con la sentenza “Mascolo e a.” del 26 novembre 2014). Tuttavia, alcuni passaggi della sentenza destano qualche perplessità. Il riferimento è, in particolare, alla parte relativa ai criteri di quantificazione del danno da risarcire al lavoratore. I Giudici di legittimità suggeriscono, in via tendenziale, l’applicazione dei criteri previsti dall’articolo 8 della legge n. 604/1966 (da un minimo di 5 ad un massimo di 12 mensilità). Escludono, invece, l’applicazione dei meccanismi forfettari di risarcimento previsti dall’articolo 32 della legge n. 183/2010 (c.d. collegato lavoro) e dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in quanto norme speciali riguardanti situazioni differenti da quella in esame. Una decisione dettata, forse, anche dalla necessità di evitare mega-risarcimenti che potrebbero incidere pesantemente sulle finanza pubbliche. Tuttavia, a parte la discutibile scelta del regime forfettario più penalizzante tra quelli citati, l’applicazione dei criteri predetti rischia, a ben vedere, di negare al lavoratore un risarcimento “completo” e “proporzionato”, con un evidente rischio di disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati. Infatti, a fronte della medesima condotta illegittima, ai secondi spetterebbe, oltre all’indennità forfettaria, anche la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, mentre ai primi verrebbe riconosciuta la sola indennità. Un’interpretazione sistematica delle norme, compatibile con l’articolo 3 della Costituzione e con il diritto dell’Unione sembra invece suggerire l’applicazione delle regole generali della responsabilità contrattuale (articolo 1218 e ss c.c.), con condanna dell’amministrazione al risarcimento pieno, completo e proporzionato, che tenga conto di tutti i pregiudizi subiti e con un effetto dissuasivo equivalente a quello prodotto, nel settore privato, dalla sanzione della conversione. Del resto, la stessa Corte, nella sentenza in commento, specifica che il ristorodel danno “deve essere completo (sia per quanto riguarda il danno da perdita di lavoro inteso in senso ampio sia per quel che concerne gli aspetti retributivi)” e “proporzionato alla singola fattispecie”, tenuto conto, tra l’altro, “del numero dei contratti a termine, dell’intervallo di tempo intercorrente tra l’uno e l’altro contratto, della durata dei singoli contratti e della complessiva durata del periodo in cui è stata la reiezione”. Si richiede di considerare inoltre “il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (…) quale espressione del dovere di solidarietà fondato sull’articolo 2 Cost.”.
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Fonte: http://www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com/art/personale/2015-02-16/precari-pa-non-e-necessaria-prova-danno-se-contratto-termine-e-illegittimo-161918.php?uuid=ABRy65U
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