giovedì 18 aprile 2013

Conversione a tempo indeterminato? Vale anche nel pubblico impiego Tribunale Trani, sez. lavoro, sentenza 15.03.2012 n° 1545

In materia di pubblico impiego, una sequenza di contratti a tempo determinato per oltre trentasei mesi complessivi, tutti carenti di esplicita giustificazione, manifesta di per sé la sua illegittimità, cui deve conseguire la sanzione prevista dalla legge della conversione dei contratti in un unico contratto a tempo indeterminato (art. 5, co. 2, d.lgs. n. 368/2001). Nella fattispecie, infatti, non può trovare applicazione il divieto di conversione di cui all’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, atteso che l’attuale ordinamento non contempla alcuna sanzione idonea ad ovviare all’utilizzo abusivo del predetto tipo di contratto nel pubblico impiego, come richiesto dalla normativa comunitaria.
È questo il principio di diritto enunciato dal Tribunale di Trani con la sentenza in commento.
La pronuncia segue la via di un nuovo orientamento[1] che si sta imponendo con sempre maggiore vigore nel panorama giurisprudenziale, diretto a calibrare la normativa nazionale ai principi comunitari della disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato sanciti dalla Direttiva 1999/70/CE, primi fra tutti il principio di non discriminazione e quello di prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
Proprio intorno alle conseguenze sanzionatorie che il nostro ordinamento ricollega alla violazione di norme imperative in tema di contratti di lavoro a termine, si registra uno degli elementi di distinzione più rilevanti tra settore pubblico e privato. L’art. 5, co. 4-bis, del d.lgs. n. 368/2001 (che attua in Italia la Direttiva 1999/70/CE) prevede la sanzione della trasformazione del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, oltre al risarcimento del danno eventualmente subito dal lavoratore, mentre l’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 (T.U. Pubblico Impiego) prevede, invece, la sola sanzione del risarcimento del danno, escludendo il diritto del lavoratore pubblico alla conversione automatica del contratto a termine sottoscritto in violazione di disposizioni imperative.
La giurisprudenza attualmente maggioritaria giustifica la diversa e minore tutela riconosciuta al lavoratore precario pubblico e ritiene pienamente legittimo il divieto di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego, affermando, tra l’altro, che la sola sanzione del risarcimento del danno costituisce una misura idonea ad evitare il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato e, se del caso, a tutelare adeguatamente il lavoratore (Cass. civ. n. 14350/2010), in linea con quanto affermato anche dalla giurisprudenza comunitaria.
L’orientamento contrario cui aderisce la sentenza in commento punta l’attenzione proprio sul concreto effetto dissuasivo del risarcimento del danno.
Partendo dal dato concreto relativo alla forte presenza di lavoratori precari nelle pubbliche amministrazioni, si afferma che il solo strumento risarcitorio non può considerarsi, da solo, idoneo a tutelare i lavoratori a termine nel settore pubblico e che, pertanto, vi è nel nostro ordinamento una illecita disparità di tutela tra lavoratori pubblici e lavoratori privati.
Tutto ciò contrasta con la normativa comunitaria che, come ha più volte affermato la Corte di Giustizia europea, se da un lato non richiede obbligatoriamente la sanzione della conversione, delegando agli Stati membri il compito di individuare misure adeguate per far fronte ad usi distorti del contratto a termine, dall’altro impone l’adozione di “misure effettive per evitare ed eventualmente sanzionare il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato” (C.G.E., ordinanza “Affatato” del 01.10.2010). Soltanto la presenza di tali condizioni può giustificare un regime sanzionatorio differente per il settore pubblico rispetto al settore privato.
Secondo il Tribunale di Trani, l’attuale ordinamento italiano non contiene alcuna effettiva sanzione idonea ad ovviare all’utilizzo abusivo e reiterato di contratti a termine nel pubblico impiego. Nel caso concreto preso in esame, «ove si ritenesse applicabile il cit. art. 36, che prevede il solo limitato risarcimento del danno, peraltro privo di parametri determinati, non si otterrebbe (come nei fatti non si è ottenuto) alcun effetto deterrente, tant’è che il malvezzo lamentato è perdurato per oltre un decennio dalla emanazione del provvedimento legislativo … (…). La stessa Corte Cost., con una recente sentenza (n. 303/2011) ha chiarito che “la stabilizzazione del rapporto è la tutela più intensa che il lavoratore precario possa ricevere … il risarcimento … assume valore logicamente secondario».
La soluzione adottata, precisa infine il Giudice del Lavoro, non si pone in contrasto con l’articolo 97 Cost, non solo perché il medesimo articolo prevede deroghe di legge generale alla regola dell’accesso al pubblico impiego mediante concorso, ma anche perché non stabilisce le caratteristiche del concorso medesimo.
Il nuovo orientamento in esame, dunque, mira a dare piena attuazione ai principi sanciti dalla Direttiva 1999/70/CE come interpretati dalla Corte di Giustizia europea, sottolineando l’inadeguatezza della sola sanzione risarcitoria nella lotta all’uso/abuso di contratti di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego e la conseguente necessità di superare il divieto di conversione di cui all’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, applicando anche ai lavoratori pubblici le tutele riconosciute nel settore privato.
(Altalex, 11 maggio 2012. Nota di Giuseppe Donato Nuzzo)
______________
[1] Cfr. Trib. Siena, 27.09.2010; Trib. Livorno 25.01.2011; Trib. Trani 19.09.2011, n. 4556.

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